Je suis l'Empire à la fin de la décadence,
Qui regarde passer les grands Barbares blancs
En composant des acrostiches indolents
D'un style d'or où la langueur du soleil danse.
Sono l'Impero alla fine della decadenza,
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti in uno stile d'oro dove danza
il languore del sole.
(Paul Verlaine, Languore)
Questi versi, letti un tempo sui banchi di scuola, mi affascinarono a tal punto da non averli più dimenticati. Riemergono ogni tanto col riaffiorare di certi stati d'animo.
Ad oggi non conosco nulla di più grandioso, nulla di più sublime di quell'impero indifferente di fronte al suo stesso disfacimento. Nessun affanno turba la sua immobilità, consapevole e immenso osservatore, poi dandy distratto e raffinato che accenna giochi di parole, un po' annoiato invero, mentre orde di barbari calpestano le sue rovine. Al pari del quadro visivo adoro quello uditivo. Tutto il secondo verso riecheggia del rumore degli zoccoli, delle grida della battaglia (meravigliosa cadenza di quel raggrumarsi di r, di g, di b) per poi scivolare nel sussurro dell'immagine successiva (quieto torpore delle s, delle l) che quasi deposita un polvere preziosa sulle macerie ormai fatte d'oro e di sole.
E allora venite pure barbari, venite giornate tristi, venite corruzione e morte.
Io sono l'Impero.
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