9 febbraio 2011

Sotto la superficie

Da che ricordo ho sempre avuto un debole per le vetrate delle chiese. Credevo che il motivo stesse nei colori, nell'incanto mistico di quelle schegge di luce, nella fragile bellezza del vetro, invece, come ho compreso in seguito, sebbene fosse lo splendore a colpire l'occhio, era però l'oscurità ad attrarre l'anima. La rete nera del piombo che trama l'intera superficie racchiudendo ogni singolo pezzo è essenziale non solo da un punto di vista strutturale.
I motivi di questa mia fascinazione però mi si sono rivelati, come ho detto, molto tempo dopo, e in un certo qual modo secondo un percorso a ritroso: dall'atto finale della storia alle origini.
Il finale, in questo caso, sta nel cloisonnisme, uno stile pittorico associato ad alcuni artisti attivi in Bretagna negli ultimi decenni dell'Ottocento: Anquetin, Bernard, Gauguin e altri. La tecnica consiste nel racchiudere le campiture cromatiche entro il limite netto di un contorno senza effetti chiaroscurali creando in questo modo dei blocchi compatti di colore. 
E se non fosse chiaro a parole, ecco alcuni capolavori.


Anquetin

Bernard

Gauguin
Il termine, cloisonnisme, indica proprio la divisione della superficie in compartimenti ben delimitati, e richiama la medesima tecnica di costruzione delle vetrate medievali.
Ci sarebbe da aggiungere che il cloisonnisme è uno dei mezzi stilistici attraverso cui si esprime l'esigenza di sintesi, la quale trova infinite manifestazioni nell'arte attraverso i secoli, ma questa è in parte un'altra storia.
Tornando alla nostra, e volendo tirare le fila del discorso, si può riassumerla così: attraverso l'apprezzamento di un certo stile pittorico, a posteriori mi è stato possibile interpretare quel primo amore per le vetrate.
O quantomeno circoscriverlo.
Sì, perché a questo punto del racconto una domanda resta ancora aperta: quale il senso di quel contorno nero? In una parola, perché lo trovo bello?
Forse esistono molteplici risposte, alcune di certo più evidenti di altre. Non escludo nemmeno che siano tutte sbagliate, ma ne ho scelta una in particolare, la quale esige l'aggiunta di un nuovo capitolo (l'ultimo, ve lo prometto), e dal momento che la mia intenzione non è di scrivere un trattato di storia dell'arte ma uno di storia di Tizia, mi siano concessi eventuali errori.

Il nostro eroe questa volta è un certo Wassily Kandinsky, e per essere efficace nella spiegazione mi limiterò a citare le parole di Renato Barilli in L'arte contemporanea. Ecco cosa scrive a proposito del dipinto Chiesa rossa.
 

già qui emerge quello che si può considerare il tratto distintivo più inquietante del primo Kandinsky: una orlatura delle sagome, affidata a un nero sontuoso che va decisamente oltre il compito di una definizione lineare. Quei tracciati così insistiti forano la superficie policroma, la incrinano, la lacerano, aprono spiragli su allarmanti fondali di tenebre; dimostrano che la costruzione bidimensionale, con le sue superfici tese, è velleitaria, non offre molto più di un'esile pellicola, e che basterebbe poco per squarciarla.[...] Accanto ai contorni incisi a stilettate, si aprono gli squarci più estesi delle ombre, che in luogo di inserire dei tasselli, delle zone cromatiche simili alle altre, vengono proprio a provocare dei salti di continuità, dei momenti di vuoto, di assenza. La superficie si rivela come nulla più che un illusorio velo di Maya, al di sotto del quale si aprono voragini beanti che lasciano presagire l'esistenza di una per ora insondabile profondità. 

E ancora:

[...] le zone d'ombra si estendono, sempre più minacciose, introducendo cospicue cesure, proprio perché si aprono come baratri accanto a zone di splendente cromia [...] la pellicola di superficie è marcia, non ce la fa più a contenere la prepotente lievitazione dei fermenti sottostanti.


Ecco cosa rappresenta l'orlo buio che tiene insieme la mia storia.
Una storia che non riguarda più le opere d'arte o l'estetica di un movimento ma finisce per farsi immagine della vita. La vita come io la percepisco: un continuo riproporsi di misteriosi istanti neri che separano ogni cosa, ogni pensiero, ogni gesto, ogni spazio di esistenza felice.

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