12 giugno 2013

Comfort book

C'è un episodio che ha fatto notizia a Chicago. Qualche settimana prima che mi sottoponessi alla crociera extralusso, un ragazzo di sedici anni fece un capitombolo dal ponte più alto di una meganave - mi pare della Carnival o della Crystal: un suicidio. Secondo il tg si trattava di pene d'amore adolescenziali, una di quelle romantiche storie che nascono in crociera e finiscono male, eccetera. Secondo me c'era qualcos'altro sotto, qualcosa che nessun servizio del telegiornale sarà mai in grado di raccontare.
In queste crociere extralusso di massa c'è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cosa insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir - soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell'allegria cessavano - io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione - uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. Forse si avvicina a quello che la gente chiama terrore o angoscia. Ma non è neanche questo. È più come avere il desiderio di morire per sfuggire alla sensazione insopportabile di prendere coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte. E viene voglia di buttarsi giù dalla nave.

(David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più)

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